Tra il "concreto" e il "concettuale"
Giovedì 9 gennaio 2012 ho reso omaggio alla capitale, e a un nuovo anno di mostre ed eventi d’arte, andando a visitare il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) e la GNAM (Galleria Nazionale d’Arte Moderna).
In questo periodo è in corso la mostra “Arte povera international”, evento espositivo dislocato geograficamente e curato da Germano Celant.
L’arte povera, come sappiamo, si contrappone alla tradizionale figurativa a partire dagli anni Sessanta e propone la supremazia del “concetto” sul valore estetico. Da studentessa d’arte ho imparato bene la lezione; tuttavia ricordo la prima volta che mia madre mi fece leggere un saggio di Lucio Fontana. Ecco, quella è stata la prima volta in cui mi sono scontrata con l’arte contemporanea.
All’epoca, avevo circa sedici anni e quando vedevo certe "cose" pensavo: “ma stiamo scherzando?” ovviamente “lo potevo fare anche io!”; in seguito, nel corso degli studi, ho scoperto aspetti diversi dell’arte contemporanea, ma quello che mi ha dato la spinta per amarla alla follia è l’unicità dell’esperienza fruitiva.
Chi mi accompagna a visitare le mostre conosce la mia passione, così mi fa domande, ma quando si tratta di arte contemporanea in fondo a tutto il discorso c’è il solito dubbio: “che senso ha?”, e la frase resa celebre da Bonami ("lo potevo fare anche io") risuona nelle discussioni.
Giovedì 9 siamo io, mia madre e mio padre; ci addentriamo in questo luogo di creatività in esposizione, percorriamo gli enormi spazi suggestivi scaturiti dal genio di Zaha Hadid, finché non ci troviamo in una stanza in cui le pareti sono interamente ricoperte da grossi ritagli di cuoio, il pavimento, in marmo di Carrara, è scavato con intensità crescente verso il centro dove una lunga sezione di albero sta adagiata a terra contenendo resina in quantità.
Appena entrata ho un sussulto, inizio a provare sensazioni forti e la mia mente le cataloga tutte a velocità della luce finché non riesco più a contenerle, guardo i miei genitori con occhi spiritati e chiedo loro “non è una meraviglia?”.
Mia madre, più sensibile alle espressioni artistiche, e grande estimatrice di Burri, apprezza le argomentazioni che seguono, mentre mio padre, visibilmente perplesso, mi dà il La per iniziare una visita “guidata” non tanto da me quanto dall’incontenibile desiderio di fargli provare quello che stavo provando in quel momento. Mi dice che non capisce, così gli rispondo con una domanda semplice: “Cosa senti?”.
Siamo dentro alla stanza già da qualche minuto, l’odore intenso delle pelli ci inebria e la loro presenza sull’intera superficie delle pareti attutisce il suono disturbando la percezione dello spazio.
Mi muovo come dentro a una bolla di sapone e gli chiedo “Vedi?” indicando il pavimento “sembra che il tempo e l’acqua l’abbiano segnato con il loro passaggio”. Mi sposto verso il centro della stanza, la sensazione di disorientamento aumenta insieme alle increspature del terreno; all’odore intenso del cuoio si mescola quello della resina che sembra quasi scorrere come un fiume dorato dentro a una scultura lignea che appare squadrata all’esterno e scavata attraverso le venature naturali del tronco all’interno. Muovo lo sguardo sulla sua lunghezza, poi dall’albero alle pareti. Adesso sono i colori a catturarmi: il marrone caldo del cuoio, l’oro intenso della resina e l’ocra slavato del legno si contrappongono al grigio freddo del marmo.
Sono catturata, stregata, un po’ turbata, sto per chiedere ai miei di lasciarmi lì ancora un po’ a meditare; quanto vorrei andare in fondo a tutte queste sensazioni!
La fame di vedere altro e lo stordimento provocato dalla mancanza d’aria ci spinge tutti e tre fuori dalla stanza, verso altre opere, verso altre argomentazioni.
Ormai il dardo è stato tratto, da lì in poi la mente si è aperta e tutto è apparso diverso.
Non so se sono riuscita a raccontare bene a loro o a voi lettori quello che stavo provando “all’interno” dell’opera “Sculture di linfa” di Giuseppe Penone, la cosa certa è che uscita da quella stanza qualcosa dentro di me era cambiato.
In questo periodo è in corso la mostra “Arte povera international”, evento espositivo dislocato geograficamente e curato da Germano Celant.
L’arte povera, come sappiamo, si contrappone alla tradizionale figurativa a partire dagli anni Sessanta e propone la supremazia del “concetto” sul valore estetico. Da studentessa d’arte ho imparato bene la lezione; tuttavia ricordo la prima volta che mia madre mi fece leggere un saggio di Lucio Fontana. Ecco, quella è stata la prima volta in cui mi sono scontrata con l’arte contemporanea.
All’epoca, avevo circa sedici anni e quando vedevo certe "cose" pensavo: “ma stiamo scherzando?” ovviamente “lo potevo fare anche io!”; in seguito, nel corso degli studi, ho scoperto aspetti diversi dell’arte contemporanea, ma quello che mi ha dato la spinta per amarla alla follia è l’unicità dell’esperienza fruitiva.
Chi mi accompagna a visitare le mostre conosce la mia passione, così mi fa domande, ma quando si tratta di arte contemporanea in fondo a tutto il discorso c’è il solito dubbio: “che senso ha?”, e la frase resa celebre da Bonami ("lo potevo fare anche io") risuona nelle discussioni.
Giovedì 9 siamo io, mia madre e mio padre; ci addentriamo in questo luogo di creatività in esposizione, percorriamo gli enormi spazi suggestivi scaturiti dal genio di Zaha Hadid, finché non ci troviamo in una stanza in cui le pareti sono interamente ricoperte da grossi ritagli di cuoio, il pavimento, in marmo di Carrara, è scavato con intensità crescente verso il centro dove una lunga sezione di albero sta adagiata a terra contenendo resina in quantità.
Appena entrata ho un sussulto, inizio a provare sensazioni forti e la mia mente le cataloga tutte a velocità della luce finché non riesco più a contenerle, guardo i miei genitori con occhi spiritati e chiedo loro “non è una meraviglia?”.
Mia madre, più sensibile alle espressioni artistiche, e grande estimatrice di Burri, apprezza le argomentazioni che seguono, mentre mio padre, visibilmente perplesso, mi dà il La per iniziare una visita “guidata” non tanto da me quanto dall’incontenibile desiderio di fargli provare quello che stavo provando in quel momento. Mi dice che non capisce, così gli rispondo con una domanda semplice: “Cosa senti?”.
Siamo dentro alla stanza già da qualche minuto, l’odore intenso delle pelli ci inebria e la loro presenza sull’intera superficie delle pareti attutisce il suono disturbando la percezione dello spazio.
Mi muovo come dentro a una bolla di sapone e gli chiedo “Vedi?” indicando il pavimento “sembra che il tempo e l’acqua l’abbiano segnato con il loro passaggio”. Mi sposto verso il centro della stanza, la sensazione di disorientamento aumenta insieme alle increspature del terreno; all’odore intenso del cuoio si mescola quello della resina che sembra quasi scorrere come un fiume dorato dentro a una scultura lignea che appare squadrata all’esterno e scavata attraverso le venature naturali del tronco all’interno. Muovo lo sguardo sulla sua lunghezza, poi dall’albero alle pareti. Adesso sono i colori a catturarmi: il marrone caldo del cuoio, l’oro intenso della resina e l’ocra slavato del legno si contrappongono al grigio freddo del marmo.
Sono catturata, stregata, un po’ turbata, sto per chiedere ai miei di lasciarmi lì ancora un po’ a meditare; quanto vorrei andare in fondo a tutte queste sensazioni!
La fame di vedere altro e lo stordimento provocato dalla mancanza d’aria ci spinge tutti e tre fuori dalla stanza, verso altre opere, verso altre argomentazioni.
Ormai il dardo è stato tratto, da lì in poi la mente si è aperta e tutto è apparso diverso.
Non so se sono riuscita a raccontare bene a loro o a voi lettori quello che stavo provando “all’interno” dell’opera “Sculture di linfa” di Giuseppe Penone, la cosa certa è che uscita da quella stanza qualcosa dentro di me era cambiato.
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